Nell’era di internet e dei mezzi di comunicazione moderni, sono sempre più frequenti i casi in cui viene violata la sfera sessuale altrui, attraverso: 

  • SEXTING (invio di messaggi sessualmente espliciti): il termine di derivazione anglosassone è composto da due parole, “sex” (sesso) e “texting” (messaggiare). Con queste parole si intende generalmente lo scambio di messaggi, audio, immagini o video – specialmente attraverso smartphone o chat di social network – a sfondo sessuale o sessualmente espliciti, comprese immagini di nudi o seminudi. Questo fenomeno si è molto diffuso negli ultimi anni, anche tra i minori;
  • REVENGE PORN: condivisione pubblica tramite internet di immagini o video a sfondo sessuale, senza il consenso della persona oggetto degli stessi. È una vendetta virtuale, spesso posta in essere da ex-partner rancorosi o delusi;
  • SEXTORTION: pratica utilizzata da cyber criminali, i quali contattano la vittima convincendola a farsi mandate foto o video osé e successivamente chiedono somme di denaro per non pubblicarle.
  • Sul piano internazionale, le normative nazionali si sono inserite nel quadro di convenzioni già esistenti, tra cui spiccano la “Convenzione (ONU) sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna” del 1979 e la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” del 2011 (c.d. Convenzione di Istanbul). Quando sono state firmate, tuttavia, non si pensava alle nuove violenze, realizzate attraverso mezzi appena immaginabili all’epoca. 

    Le Filippine sono state tra i primi stati ad introdurre una disciplina specifica contro il revenge porn, con l’“Anti-Photo and Video Voyeurism Act of 2009” a causa della precoce e vasta estensione del fenomeno nel paese, con pene fino ai sette anni di reclusione. Tuttavia ci si è presto resi conto che la mera risposta in termini sanzionatori non rappresentava una efficace tutela.

    In Israele il reato di revenge porn è stato introdotto nel 2014 ed equipara i perpetratori agli aggressori sessuali e i bersagli alle vittime di aggressioni sessuali; è stata anche attivata la linea telefonica di emergenza 105, volta a rispondere ad esigenze conseguenti a crimini e violenze in rete in danno di minori.

    Gli Stati Uniti rappresentano il laboratorio legislativo più avanzato in materia. Infatti, attualmente sono 46 gli Stati, a cui si aggiungono il District of Columbia e Guam, ad aver introdotto una normativa specifica per punire condotte di NCP (non consensual pornography). Le pene variano molto, dai casi in cui viene previsto fino ad un anno di carcere, a quelli in cui la fattispecie più grave può comportare fino a dieci anni di detenzione. La forte incidenza sociale del fenomeno ha portato una formazione bipartisan di senatori a proporre, nel 2017, l’Enough Act, volto a dotare gli Stati Uniti di una legge federale, accompagnata da linee guida, al fine di ottenere sentenze più severe rispetto a quelle risultanti da numerose legislazioni statali. A dimostrazione che chiunque può essere colpito, vi è il caso del texano Joe Barton, un membro del Congresso USA, la cui immagine è stata lesa da una diffusione non autorizzata nel 2017. Il politico repubblicano aveva inviato una foto intima ad una donna con cui aveva una relazione, per poi ritrovarsi esposto su tutti i social media.

    In Inghilterra e in Galles, il revenge porn è reato dal 2015: sono previste pene detentive fino a due anni, ed  è stata istituita, nel 2015, una linea telefonica di emergenza, Revenge Porn Helpline. In Scozia, invece, la disciplina introdotta nel 2016 consente di irrogare pene fino a cinque anni di carcere. 

    In Italia le leggi vigenti non riuscivano a contrastare, adeguatamente, il fenomeno dei video privati diffusi per vendetta, per questo da anni si chiedeva una normativa adeguata al contesto attuale. A differenza di altri paesi come Israele, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Australia, non esisteva una legge specifica che puniva il revenge porn. Solo con l’entrata in vigore della Legge n. 69/2019 meglio nota come “CODICE ROSSO”- anche in virtù di un quadro normativo ad ampio spettro – la fattispecie in questione è stata inquadrata come diffamazione, violazione della privacy, stalking, estorsione, o trattamento illecito dei dati (dell’art. 167, codice della Privacy). Ma l’aumentare dei casi e la loro pericolosità intrinseca per le vittime ha imposto un aggiornamento delle norme, ed in particolare, sono stati i casi riguardanti prima Tiziana Cantone (dove si è evidenziata una grave lacuna di sistema nell’approccio alla tutela della vittima, i cui video intimi si erano notevolmente diffusi sui social media e nel web in generale, tanto da portare al suicidio la donna dopo oltre un anno dalla denuncia), poi la deputata Giulia Sarti a far intervenire il legislatore con una normativa ad hoc.

    Solo di recente è stata codificata una disciplina specifica sul revenge porn; infatti l’art. 10 della legge n. 69 del 2019, in vigore dal 09.08.2019, ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 612 ter c.p., intitolato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Tale nuovo delitto punisce la condotta di “chiunque, dopo aver realizzato o sottratto immagini o video a sfondo sessualmente esplicito destinati a rimanere privati, li invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda senza il consenso delle persone rappresentate. È ugualmente punito chi abbia ricevuto o comunque acquisito le stesse immagini o video e ne faccia il medesimo uso al fine di recare nocumento alle persone rappresentate. La pena prevista è la reclusione da uno a sei anni e la multa da euro 5.000 a euro 15.000. Sono, inoltre, previste aggravanti per la commissione da parte di persone legate da relazione affettiva alla vittima, con mezzi telematici o in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Tranne che in quest’ultimo caso, è un delitto perseguibile a querela della persona offesa”. Da una prima lettura della norma si comprende che si tratta di un reato comune, e cioè di un reato che può essere commesso da chiunque, a prescindere dal possesso di particolari qualifiche soggettive, status, condizioni, posizioni, qualità personali.

    Procedendo ad una più precisa analisi, si nota che la nuova disposizione incriminatrice ha una portata più estesa e si riferisce a due fattispecie fra loro distinte il cui comune denominatore è costituito dalla pura e semplice diffusione di immagini o video sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone che vi sono rappresentate e indipendentemente da qualsiasi altra finalità. 

    L’incipit del primo comma della disposizione è costituito dalla clausola di salvezza “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, a tutela dell’applicabilità di una più grave norma incriminatrice come nel caso dell’estorsione, in cui la diffusione delle immagini o dei video sia strumentale all’ottenimento di danaro o di altre utilità, oppure a condotte aventi ad oggetto la divulgazione di immagini pornografiche raffiguranti soggetti minorenni, rientranti nella fattispecie di cui all’art. 600 ter c.p.. Il soggetto attivo è rappresentato da “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate” e deve aver realizzato le immagini o i video, oppure averli sottratti. Mentre non vi sono rilievi per ciò che concerne la realizzazione che va riferita all’avere personalmente scattato le foto o l’aver realizzato le riprese filmate, per ciò che concerne la sottrazione deve ritenersi che il legislatore faccia riferimento al procacciamento dei video o delle immagini contro la volontà del proprietario, quindi sottraendoli alla stessa persona offesa o in qualsiasi altro modo o da qualsiasi altro soggetto. La condotta tipica è articolata in cinque distinte ipotesi, nelle quali, alternativamente, l’autore del reato invia, consegna, cede, pubblica o diffonde i video e/o le immagini a contenuto sessualmente esplicito; le prime tre condotte si basano su un contatto diretto tra un soggetto ed un altro (o altri, ma determinati), le ultime due modalità realizzative, invece, riguardano attività destinate ad una cerchia indeterminata di destinatari, con una potenziale “viralità” della pubblicità e della diffusione delle immagini o dei video. Il delitto – almeno nelle prime tre modalità – punisce già l’invio, la consegna o la cessione da un soggetto ad un altro: con un tasso di severità comparativamente maggiore rispetto alla repressione della pubblicazione o della diffusione delle immagini o dei video a contenuto sessualmente esplicito.

    Oggetto della condotta devono essere le immagini o i video a contenuto sessualmente esplicito; ma cosa si intende per sessualmente esplicito? Si può ritenere che il legislatore si sia riferito al compimento di atti sessuali di vario tipo, non simulati né mascherati e probabilmente anche di tipo autoerotico, rimandando alla definizione propria del delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis c.p. per ciò che attiene alla rappresentazione di atti sessuali, a quella più ampia contenuta nell’ art. 600 ter co.7 c.p. che vi comprende “ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali.” 

    Da un’interpretazione più rigorosa dovrebbero rimanere escluse le mere immagini di nudo, o raffiguranti comportamenti sessualmente allusivi, anche se la diffusione a terzi di simili immagini captate nell’intimità possa caricarsi di un certo disvalore. É evidente che il reato di revenge porn non sussisterà qualora abbia ad oggetto immagini o video realizzati in situazioni in cui vi sia stata volontaria esposizione al pubblico, come ad esempio nel caso del soggetto che abbia compiuto atti sessuali in pubblico, oppure qualora si tratti di contenuti realizzati nell’ambito dell’industria pornografica (che presuppongono ovviamente una loro successiva diffusione). Ebbene, il giudice dovrebbe considerare solo quei materiali di contenuto evidentemente osceno e cioè “idoneo ad eccitare le pulsioni erotiche del fruitore, sicché in esso andrebbero ricomprese non solo le immagini raffiguranti amplessi ma anche corpi nudi con i genitali in mostra”. Nel caso opposto, infatti, rappresenterebbero contenuti sessualmente espliciti anche immagini più “sobrie” quali soggetti in costume, in abbigliamento succinto o in pose ammiccanti. Toccherà alla giurisprudenza, di volta in volta applicando la fattispecie ai casi concreti, definire la nozione di “immagini o video a contenuto sessualmente esplicito”.

    Deve, inoltre, trattarsi di immagini e video destinati a rimanere privati, cioè non destinati alla visione di soggetti diversi da quelli che hanno contribuito a realizzarli, quindi ci si riferisce a immagini o video nati nel quadro di rapporti di coppia oppure che dovrebbero rimanere visibili ad un gruppo di persone ristretto e ben circoscritto (si pensi a chi assiste, con il consenso dei “protagonisti”, a condotte sessualmente esplicite poste in essere da altri). 

    La divulgazione, deve avvenire senza il consenso delle persone rappresentate, quindi basta che la diffusione avvenga senza che le persone ritratte non abbiano acconsentito alla stessa neppure implicitamente o per facta concludentia, cioè all’insaputa della persona effigiata, proprio perché le immagini ed i video sono destinati a rimanere privati. Tuttavia, può verificarsi che le persone ritratte manifestino in un momento successivo (in modo più o meno esplicito) il consenso o l’accettazione della divulgazione delle immagini o dei video, facendo venir meno l’elemento costitutivo dalla mancanza di consenso e quindi potrebbe trovare applicazione la scriminante di cui all’art. 50 c.p.. 

    Nei casi di procedibilità d’ufficio, invece, il consenso avrà ancora maggior peso, facendo venir meno ab origine il reato, nonostante l’immediata possibile procedibilità, o proiettando delicati problemi sul piano dell’accertamento probatorio, ove il consenso si manifesti successivamente. I problemi sorgono quando si parla di consenso putativo, e cioè quando colui che realizza e diffonde il video ha creduto erroneamente di essere autorizzato dal soggetto ritratto. Opererà in questo caso una presunzione in favore della vittima, per cui sarà onere per il soggetto attivo del reato provare di aver previamente ottenuto il consenso, o questo si presumerà non prestato, con ovvie conseguenze anche in ambito civilistico.

    Non dovrebbe poi essere punito per tale reato il soggetto che diffonda contenuti in cui la persona raffigurata non sia riconoscibile o identificabile, perché ad esempio non ripresa in volto o mostrando altri particolari (ad esempio un tatuaggio) attraverso i quali individuare il protagonista delle immagini: la norma, infatti, tutela il soggetto che possa riportare un danno dall’illecita diffusione delle immagini, danno che si ritiene possa sussistere solo qualora sia possibile porre le stesse in relazione ad una persona determinata.

    Il secondo comma dell’art. 612 ter c.p., prevede che si applichi la stessa pena prevista dal comma precedente “a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”, estendendo la punibilità nei confronti di soggetti terzi che siano comunque venuti in possesso delle foto o dei video, ma in questo caso la condotta deve essere costituita dalla “ finalità di recare nocumento” alle persone rappresentate e nel caso di specie l’elemento soggettivo è costituito dal dolo specifico. Non si può non sollevare qualche perplessità sulla scelta adottata dal legislatore, laddove la locuzione recare nocumento non sembra limitare la portata della norma alle semplici finalità di vendetta, dovendosi ritenere, che essa, pur nella sua genericità, abbia comunque il pregio di evitare la criminalizzazione di condotte del tutto estranee a finalità nocive. In ogni caso, la individuazione della finalità ulteriore che deve muovere il soggetto attivo del reato potrebbe presentare difficoltà sul piano dell’accertamento probatorio.

    Invece, non si ritiene che possa essere punito per tale reato il soggetto che si limiti a mostrare il contenuto illecito ad un’altra persona (anche se solo la Giurisprudenza che maturerà in materia potrà delineare i contorni indefiniti della norma). In tale ipotesi, infatti, il contenuto illecito rimane nella disponibilità del soggetto, che si limita a mostrarlo, senza cederlo e quindi senza che si possa verificare il rischio che il contenuto venga poi ulteriormente diffuso fino a diventare “virale”.

    Il terzo ed il quarto comma dell’art. 612 ter c.p. disciplinano una serie di circostanze aggravanti, parzialmente corrispondenti a quelle previste dall’art. 612 bis 3°co. c.p. , in materia di atti persecutori, c.d. stalking. In particolare la prima aggravante – a effetto comune – prevede che “la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici”. In questa ipotesi, non si può non evidenziare che vi rientrino un’elevata quantità di casi, in primo luogo perché spesso il soggetto attivo è o è stato legato sentimentalmente alla vittima e,  inoltre, perché l’esclusivo mezzo di diffusione delle immagini e video avviene attraverso il web, i social oppure le applicazioni di messagistica. Al quarto comma, infine, il legislatore inasprisce il trattamento sanzionatorio, con un aumento della pena da un terzo alla metà – prevedendo una seconda aggravante a effetto speciale – nel caso in cui il fatto sia commesso “in danno di persona che si trovi in condizioni di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”. 

    Si può osservare che l’inclusione delle donne in gravidanza nel novero delle vittime alle quali accordare tutela rafforzata fonda sul presupposto che le stesse versino in una situazione di minorata difesa. Anche in questa ipotesi troviamo delle corrispondenze, seppur parziali, con le aggravanti previste dall’art. 612 bis 3°co. c.p., anche se non vi è alcun riferimento ai minori, forse perché, data la clausola di riserva con cui si apre l’articolo, potrebbero rilevare altre fattispecie di reato più gravi (si pensi al reato di pornografia minorile di cui all’art. 600 ter 3°co. c.p.). Al riguardo, va da ultimo precisato che la cassazione esclude che il sexting “autoprodotto” da minorenni costituisca reato (Cass. pen., Sez. III, 21.3.2016, n.1675).

    La procedibilità delle descritte fattispecie delittuose è disciplinata, al quinto comma della norma di cui trattasi, in conformità ai principi che hanno orientato il legislatore in materia di reati contro la libertà sessuale. Nello specifico, stabilita in via di principio la procedibilità a querela degli illeciti e la proponibilità della querela nel termine di sei mesi, si è altresì previsto, per un verso, che la sua remissione possa avvenire solo in sede processuale, onde assicurare che l’esercizio della relativa facoltà avvenga al cospetto e sotto il controllo di un giudice e, per altro verso, che si proceda, invece, d’ufficio in presenza sia dell’aggravante a effetto speciale di cui al comma 4 (diffusione delle immagini o dei video a contenuto sessualmente esplicito in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o di donna in stato di gravidanza) sia nel caso di connessione con altro reato procedibile d’ufficio (quando, ad esempio, la diffusione delle immagini consegua a condotte estorsive e venga usata come ritorsione, nel caso in cui la vittima abbia deciso di non sottostare al ricatto).

    di Ambra Viscito
    Avvocato, Componente del Comitato Scientifico di APDS

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